“Il teatro è concesso ai popoli che non hanno paura di guardarsi allo specchio” (Ennio Flaiano)
Qualcuno ci deve spiegare!
Sì, qualcuno ci deve spiegare perché del lavoro teatrale di
Umberto Simonetta non ci siano tracce televisive.
Perché
la RAI, ormai una colossale industria dell’AMARCORD artistico (non solo nei
programmi “Techetechete”, ma anche nelle collane DVD su sceneggiati,
prosa, per non parlare della piattaforma digitale RaiPlay), non propone
una (dico una!) registrazione dei lavori teatrali di Umberto Simonetta del
periodo d’oro, cioè tra il 1978 e il 1982, quando lo scrittore-drammaturgo
dirigeva il teatro Gerolamo di Milano? Eppure, risale a quegli anni uno
spettacolo, Mi voleva Strehler (con Maurizio Micheli, in parte Co-Autore)
tuttora rappresentato, non solo in Italia ma anche nel mondo. Perché di
quest’opera (evidentemente molto rappresentativa della prosa contemporanea, se
non ormai un classico) non esiste un “esemplare” registrato? Dico solo che, per
vedere uno di questi spettacoli, ho dovuto trovarlo quasi per caso su Youtube:
dove finalmente ho trovato l’allestimento di C’era un sacco di gente, soprattutto
giovani curato recentissimamente dalla Compagnia Teatrale Diari di Scena.
Uno spettacolo del 1979 che, nel programma dell’allora teatro Gerolamo diretto
da Simonetta, segue, in ordine cronologico, il successo di Mi voleva
Strehler (1978).
E
allora io dico: come mai, quando si parla di prosa in TV (o anche su Raiplay)
dobbiamo sorbirci solo compassati spettacoli in bianco nero (con storie più o
meno ottocentesche) e non c’è invece spazio per un teatro … “a colori” che
parli di noi, del nostro mondo, delle nostre contraddizioni? Sia chiaro, io non
svaluto il “teatro in bianco e nero”. Soltanto faccio notare che hanno diritto
“alla memoria” anche spettacoli del presente. Solo così, facciamo comprendere,
soprattutto ai giovani, che la prosa non è (come il greco e il latino) una
lingua morta, ma una lingua viva.
Teatro
al presente, dicevo. Su questa linea, trovo ben sintonizzata la Compagnia dei
giovani (talentuosi e grintosi) di Diari di Scena, che non saranno mai
abbastanza lodati e apprezzati per i loro sforzi tanto controcorrente quanto
lungimiranti. E devo dire che la Compagnia, forse, non avrebbe potuto trovare
soggetto più adatto: C’era un sacco di gente..., infatti, scritto 45
anni fa, parla del mondo delle case discografiche e dei vari “bellissimi” (e
“bellissime”) che vi ronzano attorno. Come se Simonetta avesse messo in parodia
i nostri Talent Show con 30-40 anni di anticipo… Scusate se è poco.
***
Al
centro dell’azione scenica, una Casa discografica innominata, impegnata nella
difficile transizione della discografia di fine anni ’70.
La
Casa discografica è un popolato alveare che attrae come il miele aspiranti
cantanti di ogni tipo: una sarabanda di personaggi, ora ridicoli, ora patetici,
ora tragici, tutti in cerca di gloria; o meglio … in cerca d’Autore. Troviamo
Monica, addetta alla grafica (ma interpretata da un uomo!) che, alla ricerca di
trovate che facciano più sensazione possibile, progetta una copertina di LP a
forma di … cu.. (“Volete una cosa
originale…”), impegnando i titolari della Casa in una dotta disputa estetica
degna della migliore arte di avanguardia (quale colore? Color cu.. o …?).
Troviamo Bossi (solo omonimo del politico, mi raccomando!), che altro non è il
paroliere di punta della Casa discografica, poeta fallito (“Persino Cesare
Pavese aveva mostrato interesse per le mie poesie”) che si barcamena tra più
amanti (tutte ovviamente vogliono fare carriera!) e crede di poter doppiare il
successo di Vagabondo dei Nomadi con versi di questo tenore:
“Guardando
il cielo/in un sacco a pelo/sdraiato sotto un melo/mi chiedo a cosa anelo/e
dopo averci riflettuto un po' mi svelo/che quello che io anelo/è star sdraiato
sotto un melo/in un sacco a pelo/a guardare il cielo/lontano dal vostro
sfacelo/voi che non guardate mai il cielo/e non vi siete messi mai in un sacco
a pelo…”.
(Scusate
ma l’associazione in rima di MELO-CIELO-PELO, quasi un’anafora, mi fa morire
dal ridere; per me è il massimo dell’anti-lirico…).
E
poi funzionari TV (allora solo Rai) da ungere con una confezione raffinata di
pregiati liquori, per strappare una comparsata in video; immancabili amanti che
aspirano al successo (impagabile l’aspirante “Pantera della Romagna” in cerca
di “appoggi” per piazzare la sua incredibile canzone-liscio con la sua personale
versione del “Bell’ addormentato nelle …”).
Di
questo popolato alveare, Mara, la talent scout, è l’ape regina
indiscussa. Ora, una piccola chiosa: questo nome non figura nel copione
originario, Simonetta chiama il personaggio più anodinamente la P.R; ma nello
spettacolo della Compagnia Diario di Scena la talent scout si
chiama Mara. E noi, per comodità, la chiameremo Mara.
Ora,
con i collaboratori (Righetti in primis, il travet della Casa) e
con i cantanti, Mara intrattiene un rapporto sado-masochistico: li incoraggia,
li sprona, e poi li demolisce, li abbatte con pari disinvoltura e sicurezza,
ogni volta riversando addosso a tutti un vomito ininterrotto di insulti,
parolacce, ragionamenti completamente fuori norma e fuori da ogni canone di
umanità.
Mara
non ha morale, codice ideologico: a lei interessa solo quello che fa
spettacolo, quello che si può dare in pasto al pubblico (da lei gentilmente
soprannominato “la platea dei deficienti”). Se ogni tanto sembra (dico
“sembra”) impegnata (per esempio, se accetta i testi di un Cesare Pavese
fallito come il paroliere Bossi) è solo perché l’impegno (o ciò che appare
impegno) è … moda! E può vendere. “Quando è moda, è moda”, questa è
l’unica ideologia di Mara. Ma in quegli stessi anni (1978), Giorgio Gaber nel
suo celebre e contestatissimo spettacolo Polli di allevamento rispondeva
per le rime: “Quando è m…da è m…da”. E rincarava impietoso: “Questo
scambio di emozioni, di barbe, di baffi e di kimoni non fa più male a
nessuno/Quando è moda è moda”. Il cantante milanese aveva ben compreso come
i temi del “68” a fine anno ’70 erano ormai … moda, ben metabolizzata dalla
“società dello spettacolo” (vedere, tra gli altri, Divertirsi da morire,
1985 di Postnam). In quegli anni (1978-79), sia pure in generi artistici
diversi, Giorgio Gaber (con delusione) e Umberto Simonetta (con disincanto) sono
i grandi testimoni dell’incipiente “stagione del riflusso” in Italia (vedi anche
Paolo Morando in Dancing Days del 2009).
Di
sicuro la Mara di C’è un sacco di gente… non ha problemi né di delusione
e né di disincanto. Per una come lei c’è solo una certezza: fare soldi e
sfruttare ogni cosa, ogni causa (anche apparentemente la più seria e nobile)
per produrre profitto. E’ una tiranna, Mara. Ma tutti la adorano come un dio:
sicura com’è, convinta del fatto suo, tutti credono in lei; tutti credono che
solo lei possieda la “buona stella” per portare sulla strada maestra del successo…
***
Come
l’Edipo Re di Sofocle si apre ritraendo il Coro di Tebe che supplica
l’Indovino Tiresia affinchè il dio faccia cessare la peste, così il “Coro” dei
postulanti di C’era un sacco di gente… supplica con devozione
altrettanto religiosa la Sacerdotessa-Mara perché volga a suo favore il
dio-successo.
Mara,
con la solennità e la magnanimità di un sommo Pontefice, riceve tutti. E tutti
si mettono di impegno: chi si sforza di “fare la rivoluzione” in musica
(politicamente, o almeno… esteticamente), ovvero si sforza di proporre un refrain
popolare. Peccato, però, che a Mara non freghi nulla della musica. O quasi. Lei
è in cerca di storie, di miti. E di cantanti (e canzoni) che incarnino questi
miti. Rifiuta Loredana, l’amante del paroliere Bossi perché … “a-mitica”. La
musica non conta, o è il meno: conta la pubblicità, il richiamo, costruito
attraverso stampa, radio, tv… attraverso una “società dello spettacolo” già
pienamente in funzione. Solo così fai soldi.
L’attesa
si prolunga fino a quando il Fato presenta a Mara la materia informe da
plasmare: il povero Luigi Richimuzzi, il Predestinato “dio in terra da dare in
pasto alla platea dei deficienti” (dice Mara). E Mara si trasforma in Demiurgo:
Luigi non è più Luigi ma … Concettino. Luigi-Concettino non ha alcuna
caratteristica che spicca, né come artista, né come persona. E’ in qualche modo
la replica medio-borghese del Giovane normale del celebre romanzo di
Simonetta (e dell’omonimo film di Dino Risi del 1969) che finisce triturato nel
“grande giro”. Nonostante sia figlio della buona borghesia settentrionale,
nonostante viva nel Centro Storico di Milano, nonostante abbia il papà
impiegato di banca e mamma massaia barese (ovviamente immigrata), nonostante sia
eterosessuale, a beneficio di rotocalchi e servizi TV, Luigino-Concettino deve
diventare “diverso”, (prende lezioni apposte per ancheggiare…), deve passare
per figlio di braccianti meridionali immigrati (“L’Immigrato fa simpatia!”,
assicura Mara), il papà deve farsi riprendere a lavorare in campagna come un
bracciante siciliano, la mamma (brava donna barese) deve passare per una donna
dall’oscuro passato di prostituta (tutto per giustificare la “diversità” di
Concettino!). Lascio a chi legge trovare possibili parallelismi con i cantanti
di allora (1979) e forse di oggi. Senonchè arriva il fiasco e … la sorpresa
finale! Ma non farò SPOILER sul finale.
***
Fin
qui, il testo. Passiamo allo spettacolo. Qui cominciano i problemi (non del
tutto imputabili, però, alla Compagnia, come vedremo…).
La prima parte dello spettacolo, dominata dal variopinto “coro” dei personaggi di contorno, funziona bene; scorre in un battito di ciglia, in un vortice irresistibile di trovate demenziali, assurde, esilaranti. Qui l’allestimento trova gli accenti più riusciti. I problemi, invece, sorgono con la seconda parte: purtroppo, proprio l’interpretazione di Mara offerta dalla Compagnia Diari di Scena non persuade, è falsa, innaturale, appiattita su un tono farsesco palesemente fuori luogo. Già perché è proprio nella seconda parte che il personaggio di Mara (che rovina la vita al povero Richimuzzi, e poi rovina sè stessa) assume pieghe sinistre cui l’attrice sembra non saper dare voce e sfogo.
Che
dire? Direi questo: se c’è un modo per fraintendere un lavoro come C’era un
sacco di gente…, questo è classificarlo come farsa; e di conseguenza
ignorare gli indubitabili riferimenti al teatro classico che pure Simonetta
dissemina: vuoi nella struttura complessiva dell’opera, vuoi nella costruzione
dei personaggi. E proprio in quest’errore mi pare siano caduti i curatori di
questo allestimento.
Innanzitutto,
del teatro classico (greco in particolare) Simonetta mutua la dicotomia
Coro-Mara. Il “Coro” (Bossi, Loredana, Monica, Righetti, la “Pantera della
Romagna”) rappresenta noi, il pubblico, la Gente Comune. Il registro comico
adatto al “Coro” in fondo può avvicinarsi alla farsa, per il semplice motivo
che gli spunti e le situazioni che spingono alla risata sono gli stessi spunti
e situazioni che ci fanno apparire ridicoli nella nostra vita quotidiana.
Mara non può stare sullo stesso piano. Non può starci perché è… l’eroina. Ovviamente non è eroina intesa come “personaggio positivo ed edificante” (Mara è tutt’altro). Mara è “eroina” perché (un po’ come gli eroi del teatro greco) è un “personaggio icona” . Mara non è la vicina di casa o la collega che ha fatto carriera e si è montata la testa. Sarebbe troppo meschino e anche volgare interpretarla così. Certamente, Mara è un personaggio “eccessivo”, fuori misura, ma per un semplice motivo: si crede Dio. O meglio si crede il “Re Mida” dei miliardi e in nome di questo Potere si permette di stravolgere la vita degli altri (e di Richimuzzi e famiglia). A questo punto, però, Mara non rappresenta più … se stessa, ma diventa un’icona del Potere; cioè del Potere delle Case discografiche.
Ora,
nel suo piatto realismo, nella sua caricaturalità urlata, la Mara di Diari
di Scena è tutto fuorché iconica. È antipatico dirlo, ma per questo
personaggio occorreva ispirarsi alle grandi figure iconiche del teatro di prosa
(penso, ad esempio, alla Rossella Falk-Siria de Il giuoco delle parti,
alla sua paranoica ma geniale egolatria…).
Ho
parlato de Il giuoco delle parti perché il personaggio di Mara rivela
inconfondibili reminiscenze pirandelliane. Così come il luccicante (e
illusorio) mondo dello spettacolo, della cd “Industria culturale” di massa, con
i suoi aspetti alienanti e mistificatori, riecheggia il Pirandello di Suo
Marito (1910) e di Si gira/Quaderni di Serafino Gubbio Operatore
(1915 e 1925).
Infatti,
allo stesso modo di Pirandello (vedi il celebre discorso sulla Signora
truccata), anche Simonetta usa l’umorismo per stravolgere le apparenze, ovvero
la visione “comune” di una certa realtà. È così agli occhi di Simonetta il
prestigio, la potenza delle Case discografiche si rivelano una divinità
fallita, un gigante di carta, ostaggio di un meccanismo di produzione e
profitto che divora tutto: oltre a stritolare ingenue vittime (Richimuzzi e
famiglia), tritura anche individui “scafati” come Mara.
Come
non potevi (a suo tempo) ridurre Pirandello nelle fruste convenzioni del dramma
borghese di fine ‘800-inizio ‘900, così non puoi ridurre C’era un sacco di
gente... di Simonetta a farsa, a Cabaret! In questo modo, purtroppo,
perdiamo molto del valore dello spettacolo.
***
Concludendo
ci tengo a precisare una cosa: la mia critica all’allestimento non intende
affatto sminuire l’impegno e la rilevante professionalità dei giovani artisti della
Compagnia Teatrale Diari di Scena. Come detto, infatti, i limiti
riscontrati nello spettacolo, a mio modesto giudizio, solo in parte (forse in
minima parte) sono addebitabili a Regista e Attori.
La
vera “colpa” (se vogliamo esprimerci così) probabilmente sta nella critica. I
limiti di questo spettacolo, cioè, ritengo siano figli di decenni di incomprensione
critica su Simonetta.
Purtroppo,
se sei un Autore come Simonetta, un Autore cioè che dell’incursione nei generi
“alti” e “bassi” della cultura aveva fatto quasi un programma, un manifesto,
una poetica, la tua sorte in Italia è segnata. Per chi non sapesse, Umberto
Simonetta ha attraversato con pari classe sia il genere del romanzo (Tirar
mattina, del 1963, con la sua narrazione a “flusso continuo” che molto
ricorda la musicalità narrativa di un Cèline…) sia la canzonetta (Simonetta
scrisse molte canzoni del Gaber “prima maniera”, ad esempio Barbera e
Champagne), la rivista, il Cabaret, i programmi comici TV (Simonetta
è accreditato tra i “creatori” di Fracchia e Fantozzi, nientemeno!).
In
Italia, puoi essere il più bravo Scrittore del mondo, ma quando ti concedi alla
“cultura bassa” (a ciò che tale è ritenuto dalla critica snob!), la tua
sorte è segnata: nel migliore dei casi i critici non ti sanno classificare (ti
danno del “poliedrico”, ma spesso con un sottinteso non benevolo…); nel
peggiore dei casi (il più frequente) ti etichettano come un Autore leggero o di
evasione e non ti prendono sul serio.
Quando
potremmo avere di questo spettacolo una rappresentazione più degna dell’indubbio
spessore artistico di Simonetta? Presto spero…