sabato 16 marzo 2024

“C’ERA UN SACCO DI GENTE, SOPRATTUTTO GIOVANI” (U. SIMONETTA, 1979): UN TEATRO AL PRESENTE, OVVERO IL “TALENT SHOW” 45 ANNI PRIMA…



“Il teatro è concesso ai popoli che non hanno paura di guardarsi allo specchio” (Ennio Flaiano)

 

Qualcuno ci deve spiegare!

 

Sì, qualcuno ci deve spiegare perché del lavoro teatrale di Umberto Simonetta non ci siano tracce televisive.

 

Perché la RAI, ormai una colossale industria dell’AMARCORD artistico (non solo nei programmi “Techetechete”, ma anche nelle collane DVD su sceneggiati, prosa, per non parlare della piattaforma digitale RaiPlay), non propone una (dico una!) registrazione dei lavori teatrali di Umberto Simonetta del periodo d’oro, cioè tra il 1978 e il 1982, quando lo scrittore-drammaturgo dirigeva il teatro Gerolamo di Milano? Eppure, risale a quegli anni uno spettacolo, Mi voleva Strehler (con Maurizio Micheli, in parte Co-Autore) tuttora rappresentato, non solo in Italia ma anche nel mondo. Perché di quest’opera (evidentemente molto rappresentativa della prosa contemporanea, se non ormai un classico) non esiste un “esemplare” registrato? Dico solo che, per vedere uno di questi spettacoli, ho dovuto trovarlo quasi per caso su Youtube: dove finalmente ho trovato l’allestimento di C’era un sacco di gente, soprattutto giovani curato recentissimamente dalla Compagnia Teatrale Diari di Scena. Uno spettacolo del 1979 che, nel programma dell’allora teatro Gerolamo diretto da Simonetta, segue, in ordine cronologico, il successo di Mi voleva Strehler (1978).

 

E allora io dico: come mai, quando si parla di prosa in TV (o anche su Raiplay) dobbiamo sorbirci solo compassati spettacoli in bianco nero (con storie più o meno ottocentesche) e non c’è invece spazio per un teatro … “a colori” che parli di noi, del nostro mondo, delle nostre contraddizioni? Sia chiaro, io non svaluto il “teatro in bianco e nero”. Soltanto faccio notare che hanno diritto “alla memoria” anche spettacoli del presente. Solo così, facciamo comprendere, soprattutto ai giovani, che la prosa non è (come il greco e il latino) una lingua morta, ma una lingua viva.

 

Teatro al presente, dicevo. Su questa linea, trovo ben sintonizzata la Compagnia dei giovani (talentuosi e grintosi) di Diari di Scena, che non saranno mai abbastanza lodati e apprezzati per i loro sforzi tanto controcorrente quanto lungimiranti. E devo dire che la Compagnia, forse, non avrebbe potuto trovare soggetto più adatto: C’era un sacco di gente..., infatti, scritto 45 anni fa, parla del mondo delle case discografiche e dei vari “bellissimi” (e “bellissime”) che vi ronzano attorno. Come se Simonetta avesse messo in parodia i nostri Talent Show con 30-40 anni di anticipo… Scusate se è poco.

 

***

 

Al centro dell’azione scenica, una Casa discografica innominata, impegnata nella difficile transizione della discografia di fine anni ’70.

 

La Casa discografica è un popolato alveare che attrae come il miele aspiranti cantanti di ogni tipo: una sarabanda di personaggi, ora ridicoli, ora patetici, ora tragici, tutti in cerca di gloria; o meglio … in cerca d’Autore. Troviamo Monica, addetta alla grafica (ma interpretata da un uomo!) che, alla ricerca di trovate che facciano più sensazione possibile, progetta una copertina di LP a forma di …  cu.. (“Volete una cosa originale…”), impegnando i titolari della Casa in una dotta disputa estetica degna della migliore arte di avanguardia (quale colore? Color cu.. o …?). Troviamo Bossi (solo omonimo del politico, mi raccomando!), che altro non è il paroliere di punta della Casa discografica, poeta fallito (“Persino Cesare Pavese aveva mostrato interesse per le mie poesie”) che si barcamena tra più amanti (tutte ovviamente vogliono fare carriera!) e crede di poter doppiare il successo di Vagabondo dei Nomadi con versi di questo tenore:

 

Guardando il cielo/in un sacco a pelo/sdraiato sotto un melo/mi chiedo a cosa anelo/e dopo averci riflettuto un po' mi svelo/che quello che io anelo/è star sdraiato sotto un melo/in un sacco a pelo/a guardare il cielo/lontano dal vostro sfacelo/voi che non guardate mai il cielo/e non vi siete messi mai in un sacco a pelo…”.

 

(Scusate ma l’associazione in rima di MELO-CIELO-PELO, quasi un’anafora, mi fa morire dal ridere; per me è il massimo dell’anti-lirico…).

 

E poi funzionari TV (allora solo Rai) da ungere con una confezione raffinata di pregiati liquori, per strappare una comparsata in video; immancabili amanti che aspirano al successo (impagabile l’aspirante “Pantera della Romagna” in cerca di “appoggi” per piazzare la sua incredibile canzone-liscio con la sua personale versione del “Bell’ addormentato nelle …”).

 

Di questo popolato alveare, Mara, la talent scout, è l’ape regina indiscussa. Ora, una piccola chiosa: questo nome non figura nel copione originario, Simonetta chiama il personaggio più anodinamente la P.R; ma nello spettacolo della Compagnia Diario di Scena la talent scout si chiama Mara. E noi, per comodità, la chiameremo Mara.

 

Ora, con i collaboratori (Righetti in primis, il travet della Casa) e con i cantanti, Mara intrattiene un rapporto sado-masochistico: li incoraggia, li sprona, e poi li demolisce, li abbatte con pari disinvoltura e sicurezza, ogni volta riversando addosso a tutti un vomito ininterrotto di insulti, parolacce, ragionamenti completamente fuori norma e fuori da ogni canone di umanità.

 

Mara non ha morale, codice ideologico: a lei interessa solo quello che fa spettacolo, quello che si può dare in pasto al pubblico (da lei gentilmente soprannominato “la platea dei deficienti”). Se ogni tanto sembra (dico “sembra”) impegnata (per esempio, se accetta i testi di un Cesare Pavese fallito come il paroliere Bossi) è solo perché l’impegno (o ciò che appare impegno) è … moda! E può vendere. “Quando è moda, è moda”, questa è l’unica ideologia di Mara. Ma in quegli stessi anni (1978), Giorgio Gaber nel suo celebre e contestatissimo spettacolo Polli di allevamento rispondeva per le rime: “Quando è m…da è m…da”. E rincarava impietoso: “Questo scambio di emozioni, di barbe, di baffi e di kimoni non fa più male a nessuno/Quando è moda è moda”. Il cantante milanese aveva ben compreso come i temi del “68” a fine anno ’70 erano ormai … moda, ben metabolizzata dalla “società dello spettacolo” (vedere, tra gli altri, Divertirsi da morire, 1985 di Postnam). In quegli anni (1978-79), sia pure in generi artistici diversi, Giorgio Gaber (con delusione) e Umberto Simonetta (con disincanto) sono i grandi testimoni dell’incipiente “stagione del riflusso” in Italia (vedi anche Paolo Morando in Dancing Days del 2009).

 

Di sicuro la Mara di C’è un sacco di gente… non ha problemi né di delusione e né di disincanto. Per una come lei c’è solo una certezza: fare soldi e sfruttare ogni cosa, ogni causa (anche apparentemente la più seria e nobile) per produrre profitto. E’ una tiranna, Mara. Ma tutti la adorano come un dio: sicura com’è, convinta del fatto suo, tutti credono in lei; tutti credono che solo lei possieda la “buona stella” per portare sulla strada maestra del successo…

 

***

 

Come l’Edipo Re di Sofocle si apre ritraendo il Coro di Tebe che supplica l’Indovino Tiresia affinchè il dio faccia cessare la peste, così il “Coro” dei postulanti di C’era un sacco di gente… supplica con devozione altrettanto religiosa la Sacerdotessa-Mara perché volga a suo favore il dio-successo.

 

Mara, con la solennità e la magnanimità di un sommo Pontefice, riceve tutti. E tutti si mettono di impegno: chi si sforza di “fare la rivoluzione” in musica (politicamente, o almeno… esteticamente), ovvero si sforza di proporre un refrain popolare. Peccato, però, che a Mara non freghi nulla della musica. O quasi. Lei è in cerca di storie, di miti. E di cantanti (e canzoni) che incarnino questi miti. Rifiuta Loredana, l’amante del paroliere Bossi perché … “a-mitica”. La musica non conta, o è il meno: conta la pubblicità, il richiamo, costruito attraverso stampa, radio, tv… attraverso una “società dello spettacolo” già pienamente in funzione. Solo così fai soldi.

 

L’attesa si prolunga fino a quando il Fato presenta a Mara la materia informe da plasmare: il povero Luigi Richimuzzi, il Predestinato “dio in terra da dare in pasto alla platea dei deficienti” (dice Mara). E Mara si trasforma in Demiurgo: Luigi non è più Luigi ma … Concettino. Luigi-Concettino non ha alcuna caratteristica che spicca, né come artista, né come persona. E’ in qualche modo la replica medio-borghese del Giovane normale del celebre romanzo di Simonetta (e dell’omonimo film di Dino Risi del 1969) che finisce triturato nel “grande giro”. Nonostante sia figlio della buona borghesia settentrionale, nonostante viva nel Centro Storico di Milano, nonostante abbia il papà impiegato di banca e mamma massaia barese (ovviamente immigrata), nonostante sia eterosessuale, a beneficio di rotocalchi e servizi TV, Luigino-Concettino deve diventare “diverso”, (prende lezioni apposte per ancheggiare…), deve passare per figlio di braccianti meridionali immigrati (“L’Immigrato fa simpatia!”, assicura Mara), il papà deve farsi riprendere a lavorare in campagna come un bracciante siciliano, la mamma (brava donna barese) deve passare per una donna dall’oscuro passato di prostituta (tutto per giustificare la “diversità” di Concettino!). Lascio a chi legge trovare possibili parallelismi con i cantanti di allora (1979) e forse di oggi. Senonchè arriva il fiasco e … la sorpresa finale! Ma non farò SPOILER sul finale.

 

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Fin qui, il testo. Passiamo allo spettacolo. Qui cominciano i problemi (non del tutto imputabili, però, alla Compagnia, come vedremo…).

 

La prima parte dello spettacolo, dominata dal variopinto “coro” dei personaggi di contorno, funziona bene; scorre in un battito di ciglia, in un vortice irresistibile di trovate demenziali, assurde, esilaranti. Qui l’allestimento trova gli accenti più riusciti. I problemi, invece, sorgono con la seconda parte: purtroppo, proprio l’interpretazione di Mara offerta dalla Compagnia Diari di Scena non persuade, è falsa, innaturale, appiattita su un tono farsesco palesemente fuori luogo. Già perché è proprio nella seconda parte che il personaggio di Mara (che rovina la vita al povero Richimuzzi, e poi rovina sè stessa) assume pieghe sinistre  cui l’attrice sembra non saper dare voce e sfogo.

 

Che dire? Direi questo: se c’è un modo per fraintendere un lavoro come C’era un sacco di gente…, questo è classificarlo come farsa; e di conseguenza ignorare gli indubitabili riferimenti al teatro classico che pure Simonetta dissemina: vuoi nella struttura complessiva dell’opera, vuoi nella costruzione dei personaggi. E proprio in quest’errore mi pare siano caduti i curatori di questo allestimento.

 

Innanzitutto, del teatro classico (greco in particolare) Simonetta mutua la dicotomia Coro-Mara. Il “Coro” (Bossi, Loredana, Monica, Righetti, la “Pantera della Romagna”) rappresenta noi, il pubblico, la Gente Comune. Il registro comico adatto al “Coro” in fondo può avvicinarsi alla farsa, per il semplice motivo che gli spunti e le situazioni che spingono alla risata sono gli stessi spunti e situazioni che ci fanno apparire ridicoli nella nostra vita quotidiana.

 

Mara non può stare sullo stesso piano. Non può starci perché è… l’eroina. Ovviamente non è eroina intesa come “personaggio positivo ed edificante” (Mara è tutt’altro). Mara è “eroina” perché (un po’ come gli eroi del teatro greco) è un “personaggio icona” . Mara non è la vicina di casa o la collega che ha fatto carriera e si è montata la testa. Sarebbe troppo meschino e anche volgare interpretarla così. Certamente, Mara è un personaggio “eccessivo”, fuori misura, ma per un semplice motivo: si crede Dio. O meglio si crede il “Re Mida” dei miliardi e in nome di questo Potere si permette di stravolgere la vita degli altri (e di Richimuzzi e famiglia). A questo punto, però, Mara non rappresenta più … se stessa, ma diventa un’icona del Potere; cioè del Potere delle Case discografiche.

 

Ora, nel suo piatto realismo, nella sua caricaturalità urlata, la Mara di Diari di Scena è tutto fuorché iconica. È antipatico dirlo, ma per questo personaggio occorreva ispirarsi alle grandi figure iconiche del teatro di prosa (penso, ad esempio, alla Rossella Falk-Siria de Il giuoco delle parti, alla sua paranoica ma geniale egolatria…).

 

Ho parlato de Il giuoco delle parti perché il personaggio di Mara rivela inconfondibili reminiscenze pirandelliane. Così come il luccicante (e illusorio) mondo dello spettacolo, della cd “Industria culturale” di massa, con i suoi aspetti alienanti e mistificatori, riecheggia il Pirandello di Suo Marito (1910) e di Si gira/Quaderni di Serafino Gubbio Operatore (1915 e 1925).

 

Infatti, allo stesso modo di Pirandello (vedi il celebre discorso sulla Signora truccata), anche Simonetta usa l’umorismo per stravolgere le apparenze, ovvero la visione “comune” di una certa realtà. È così agli occhi di Simonetta il prestigio, la potenza delle Case discografiche si rivelano una divinità fallita, un gigante di carta, ostaggio di un meccanismo di produzione e profitto che divora tutto: oltre a stritolare ingenue vittime (Richimuzzi e famiglia), tritura anche individui “scafati” come Mara.

 

Come non potevi (a suo tempo) ridurre Pirandello nelle fruste convenzioni del dramma borghese di fine ‘800-inizio ‘900, così non puoi ridurre C’era un sacco di gente... di Simonetta a farsa, a Cabaret! In questo modo, purtroppo, perdiamo molto del valore dello spettacolo.

 

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Concludendo ci tengo a precisare una cosa: la mia critica all’allestimento non intende affatto sminuire l’impegno e la rilevante professionalità dei giovani artisti della Compagnia Teatrale Diari di Scena. Come detto, infatti, i limiti riscontrati nello spettacolo, a mio modesto giudizio, solo in parte (forse in minima parte) sono addebitabili a Regista e Attori.

 

La vera “colpa” (se vogliamo esprimerci così) probabilmente sta nella critica. I limiti di questo spettacolo, cioè, ritengo siano figli di decenni di incomprensione critica su Simonetta.

 

Purtroppo, se sei un Autore come Simonetta, un Autore cioè che dell’incursione nei generi “alti” e “bassi” della cultura aveva fatto quasi un programma, un manifesto, una poetica, la tua sorte in Italia è segnata. Per chi non sapesse, Umberto Simonetta ha attraversato con pari classe sia il genere del romanzo (Tirar mattina, del 1963, con la sua narrazione a “flusso continuo” che molto ricorda la musicalità narrativa di un Cèline…) sia la canzonetta (Simonetta scrisse molte canzoni del Gaber “prima maniera”, ad esempio Barbera e Champagne), la rivista, il Cabaret, i programmi comici TV (Simonetta è accreditato tra i “creatori” di Fracchia e Fantozzi, nientemeno!).

 

In Italia, puoi essere il più bravo Scrittore del mondo, ma quando ti concedi alla “cultura bassa” (a ciò che tale è ritenuto dalla critica snob!), la tua sorte è segnata: nel migliore dei casi i critici non ti sanno classificare (ti danno del “poliedrico”, ma spesso con un sottinteso non benevolo…); nel peggiore dei casi (il più frequente) ti etichettano come un Autore leggero o di evasione e non ti prendono sul serio.

 

Quando potremmo avere di questo spettacolo una rappresentazione più degna dell’indubbio spessore artistico di Simonetta? Presto spero…

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 16 ottobre 2023

PUPI AVATI E ROCCHETTA MATTEI: SUI SENTIERI INTERROTTI DI UN POSSIBILE “DECADENTISMO FELSINEO”



Balsamus (opera prima di Pupi Avati del 1968) è un film praticamente invisibile. Meglio, introvabile. Non pare uscito in VHS, in DVD. Tanti anni fa, ebbi occasione di trovarlo fortuitamente in non so quale TV locale e lo registrai. Diversamente, non sarei mai riuscito a vederlo. E’ insomma un mistero. Un mistero critico. Ma è un mistero che ha una possibile e decisiva chiave: la Rocchetta Mattei.

Balsamus, infatti, è un abortito (eppure promettente e interessante) episodio di “decadentismo felsineo”. Esattamente come Rocchetta Mattei. Ma il film non è noto in questi termini.

Per questo, dobbiamo riavvolgere il nastro.

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“Ciò che è noto, non è conosciuto”, diceva Hegel.

Un detto che si sposa a pennello per il film Balsamus di Pupi Avati. Girato nel 1968, distribuito (stentatamente) nel 1970, il film è anche noto per aver portato ad una certa celebrità il protagonista, Bob Tonelli, uno dei caratteristi più ... caratterizzanti del cinema di Avati almeno fino alla Gita Scolastica. E' altresì noto che Balsamus fu un film "baciato dalla fortuna": proprio grazie a Bob Tonelli, infatti, Avati e la sua scalcagnata banda di amici cinefili fu messo in contatto con un certo “Mister X”, che garantì le finanze al film. 

Insomma, la "cronaca" del film è nota. E' carente, però, l'ermeneutica; del film, in altre parole, non è noto … il motivo. Non è noto cioè il motivo che spinse Avati a scegliere di filmare proprio quel soggetto; non si conosce in altre parole l’influenza culturale, artistica, letteraria che davvero ha plasmato l’ispirazione del regista, la sua creatività. Non si sa nulla. O meglio nulla all’infuori dell’etichetta: “Film provinciale, sbagliato” (appiccicata dal regista). Questo, a partire dal film Tv Cinema!!! (1979), di fatto una sorta di “interpretazione autentica” di Avati della sua opera prima. Balsamus, insomma, lo si classifica negli esatti termini con cui Pupi Avati ha sempre accreditato: un film velleitario, frutto di provincialismo, di gratuità culturale e ingenuità giovanile.

Tralasciando l’umiltà del regista (pure apprezzabile), è da rilevare il caratteristico "Bias di conferma" che caratterizza la critica e le recensioni raccolte dal film Balsamus nel corso di questi 50 anni. Balsamus cioè viene solitamente etichettato come "film precursore”: da un lato come "precursore" del temi dell'Avati maturo (vedere Lorenzo Codelli, pure avatiano della prima ora: “Con il senno del poi, si potrebbero isolare certe componenti di Balsamus e dimostrarne gli sviluppi paralleli”); dall'altro, come film “precursore” di una certa tendenza alla trasversalità dei generi che pure caratterizza il cinema avatiano affermato:  in questo senso, Curti, in Italian Gothic Horror Films 1970-1979, (McFarland, 2017) ritrova in Balsamus un film “inclassificabile”, espressione della precoce ecletticità avatiana di “attraversare” i più diversi generi (horror, favola, grottesco). Tutto ciò non è sbagliato, ma è, nonostante tutto, abbastanza fuorviante.

E’ fuorviante, cioè, volere a tutti i costi allineare Balsamus ai film della produzione avatiana “matura”. Balsamus possiede, infatti, una specificità propria che usualmente non si coglie (ma esiste), è frutto di una ricerca artistica che, con la maturità, si inabisserà fino a scomparire.

Chiariamoci. Balsamus, come film, è orrendo. E l’umiltà dell’Autore (che riconosce i suoi errori) è molto apprezzabile. Ma al critico non basta l’umiltà dell’artista che riconosce il proprio errore artistico. Al critico interessa sì giudicare sbagliata un’opera (se tale è), ma più che altro deve comprendere la genesi dell’errore. Perché se l’artista è grande, anche i suoi errori giovanili sono interessanti; anche gli errori giovanili, infatti, tradiscono lo spessore dell’artista, la sua cultura, la sua inventiva: anche un’opera “abortita” parla di un Autore, della sua storia, del suo spessore, insieme naturalmente alle opere “riuscite”.

Un Giacomo Puccini, ad esempio, non sarebbe stato il grande Puccini senza le operine d'esordio fragili come Le Villi (1883), ovvero maldestre come Edgar (1889), allo stesso modo Pietro Germi non sarebbe stato il grande Germi senza aver prima decantato le fragilità stilistiche e tecniche de Il Testimone (1946) e La città si difende (1949), così Pupi Avati non sarebbe il grande Pupi Avati senza Balsamus e senza Thomas... gli indemoniati. Gli errori degli esordi sono sempre decisivi per la maturazione e senza quelle prove malriuscite non riusciamo a capire ed ad apprezzare veramente i momenti maturi e migliori di un Autore: la loro comprensione critica, in una parola, rimane monca.

Senza farmi illusioni, proverò a offrire alcuni spunti di riflessioni sperando che, nel tempo, possano contribuire a superare questo che a mio giudizio è il principale “scoglio critico” dell’opera avatiana.

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Quello che è noto, non è conosciuto, diceva Hegel.

Ora, di Balsamus è nota la trama: è un nano-negromante che vive nel suo castello (il film è girato a Rocchetta Mattei, come dicevo). La storia è contemporanea al tempo in cui fu girato il film, fine anni '60, ma Balsamus e la sua corte sono tutti agghindati come personaggi del '700. La figura di Balsamus evoca, come noto, Giuseppe Cagliostro (Giuseppe Balsamo appunto) e così i rituali esoterici in cui egli vive insieme alla sua corte. Ciò è noto.

Non è noto (o meglio non è mai stato spiegato), invece, perchè Avati e i suoi sceneggiatori (Enzo Leonardo, Giorgio Celli) abbiano deciso di inserire la vicenda del nano Balsamus all'interno di questa sfasatura storico-temporale: una sfasatura che ricorda da vicino l'Enrico IV di Pirandello (tra l'altro, quest'opera, nella versione cinematografica di Marco Bellocchio è stata anch'essa girata nel 1983 alla Rocchetta Mattei...). 

In effetti, scorrendo la storia del nano, ci accorgiamo che anche il nano-mago Balsamus vive la stessa esistenza dissociata dell'Enrico IV di Pirandello; come l'Enrico IV di Pirandello, infatti, Balsamus vive proiettato in un mondo immaginario, protetto, ma anche sfruttato dagli amici e parenti. Ma Balsamus ha un'aggravante: mentre l'Enrico IV di Pirandello vive la sua "dissociazione" solo nel privato, Balsamus invece passa per un guaritore e la sua fama gli porta adepti, richieste di grazie e di guarigione da tutto il mondo. Grazie e voti che alla bisogna vengono evasi dai collaboratori che non si tirano indietro, specie quando in ballo ci sono lucrose donazioni. Ma come nell'Enrico IV di Pirandello, la storia di Balsamus degenera nella paranoia: se, infatti, il personaggio pirandelliano si ostina nel voler calcare il suo personaggio medievale e dissoluto al punto da uccidere il suo virtuale rivale in amore (in un virtuale duello), Balsamus, non creduto nemmeno dopo aver dimostrato di essere un vero mago (riesce a far risorgere la suocera), si uccide.

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Si sa che il film Balsamus è ambientato nelle colline bolognesi: è noto, del resto, l'amore di Avati per la sua terra e come l'Emilia abbia offerto molte delle più note e suggestive location di Avati. Meno noto, invece, è che esso è ambientato in Rocchetta Mattei.

Avati in Cinema! racconta di aver scoperto Rocchetta Mattei, nel corso di un sopralluogo alla ricerca di una location adatta al suo film. Più in particolare, stando quindi alla "versione ufficiale" del regista, egli avrebbe scoperto Rocchetta Mattei solo dopo aver scritto la sceneggiatura di Balsamus. Insomma, una scoperta causale. Ora io invece mi chiedo: e se invece Avati si fosse deciso di scrivere e girare un film come Balsamus solo dopo aver visitato Rocchetta Mattei? E che la location di Rocchetta Mattei non sia stata una scoperta causale, ma la sorgente del soggetto?

Ora, procediamo con ordine. Certamente, Rocchetta Mattei è un “luogo letterario” per definizione. L’ideale per ambientare un “certo tipo di film”.

Un luogo “inattuale”: una rocca medievale “rifatta” con lo stile di fine 800 e inizio 900 dove ora ti trovi proiettato nello stile gotico dell’architettura originaria, ora sei proiettato nel finto moresco, nel liberty. Kitsch, Pastice estetico architettonico: il tutto rivela una chiara e inconfondibile matrice decadente. Come  -mutatis mutandis- i castelli di Baviera di Ludwig II, trasfigurazione estetica di una gloria imperiale stile Versailles di un Sovrano ormai uscito dalla Storia; come il Castello Miramare di Trieste, rappresentanza dell’impossibile gloria imperiale di Massimiliano, fratello di Francesco Giuseppe Imperatore d’Austria. Testimoni di quell’epoca che va grosso modo dal 1848 al 1914 e che il filosofo Gyorgy Lukàcs qualificherà “Distruzione della Ragione”.

Chi abita un luogo simile può essere solo un certo tipo di uomo: un uomo che vive nel proprio tempo e contemporaneamente lo rifiuta.

Vi può vivere un uomo come l’Enrico IV di Pirandello. Non a caso, Rocchetta Mattei è stata anche la location della versione cinematografica della pièce pirandelliana di Marco Bellocchio del 1983 con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale. Una scelta decisamente azzeccata.

Ma questa è anche l’abitazione ideale anche per il Balsamus di Pupi Avati: un uomo del XX Secolo che crede di essere la reincarnazione del Mago Cagliostro e vive (e fa vivere i suoi collaboratori) in abiti e atmosfere di settecento alchemico ed occulto.

E’ infatti proprio Rocchetta Mattei, a conferire al film Balsamus la sua peculiare cifra stilistica (solitamente ignorata dalla critica e negletta dal suo stesso Autore): un singolare episodio di decadentismo felsineo.

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Detto questo, però, dobbiamo fare un passo avanti.

Se è vero che Rocchetta Mattei è un luogo assolutamente adatto come location del film-opera prima di Avati, si dà il caso anche che esso fosse abitato da un personaggio (l’Ing. Conte Cesare Mattei) che assomiglia quasi come una goccia d’acqua al protagonista Balsamus dell’opera prima di Avati.

L’Ing. Conte Mattei come Balsamus fu un "guaritore" di fama mondiale, cultore di arti paramediche, lo “scopritore” della discussa Elettromeopatia che lo rese famoso in tutto il mondo (convogliando alle sue cure anche importanti teste coronate europee). Una specialità che durò dagli anni ’80 dell’800 fino al 1959 circa (anche se negli ultimi anni in declino sempre più accentuato). Come il Balsamus di Pupi Avati, le sue ricerche erano sincere, lui cioè era seriamente mosso da intenti filantropici e dal desiderio di alleviare il dolore ai sofferenti. Come il Balsamus di Pupi Avati, il Conte Ing. Mattei era provocatoriamente inattuale: mentre i “pari” del Conte Ing. si battevano per lo più per l’Unità d’Italia (chi per convinzione, chi per opportunismo), il Conte Ing. viveva appartato nel suo “albergo”, facendo della collina bolognese dove era riposto il suo ricovero una sorta di Montagna Incantata (Thomas Mann) al riparo dai tumulti della storia e della politica. Ma anche il Conte Ing. (come il Balsamus avatiano) viveva sulla difensiva, perennemente sospettoso della buona fede di chi lo circondava: negli ultimi tempi, la paranoia (complice la vecchiaia) lo portarono a fabbricare un ponte levatoio che tutte le notti si alzava e ne isolava la camera da letto, in modo da impedire a possibili malintenzionati di ucciderlo, soffocarlo, avvelenarlo...

Insomma, se c’è una chiarissima continuità “stilistica” tra il film Balsamus e la stessa Rocchetta Mattei, esiste anche una (possibile, molto verosimile) “continuità biografica” tra l’Ing. Mattei e il personaggio mago-nano di Pupi Avati: forse che il personaggio di Balsamus è la trasfigurazione mitico-letteraria della figura dell'Ing. Mattei, il fondatore dell'omonima rocca? Ora, io non accampo certezze (ciò sarebbe presuntuoso e fuori luogo); ma il sospetto viene ...

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In conclusione di questo mio contributo, mentre riconosco che la mia esegesi di Balsamus di Pupi Avati è abbastanza “originale”, riconosco anche contemporaneamente che potrebbe essere sbagliata. Ma una cosa deve essere chiara: io non rivendico il diritto di avere ragione, quanto un diritto di “andare contro corrente” rispetto alla critica cinematografica più consolidata. Trovo, infatti, strana e, se mi si permette, sospetta l’uniformità con cui i critici, rispetto a Balsamus, si sono nel tempo allineati al giudizio del regista (cui ripeto va la nostra massima stima per la sua assoluta umiltà, oltrechè per la sua arte, naturalmente!).

Tutte le “narrative” (a partire da quella accreditata da Pupi Avati in Cinema!!!) che riducono Balsamus ad una mera “avventura goliardica di ingenui provinciali” mettono inopinatamente tra parentesi un dato invece sicuro: ovvero che il film Balsamus, nonostante l'evidente e notorio fallimento, nacque certamente come un film provocatorio e divisivo, almeno nelle intenzioni (che, come detto, è questa la prospettiva da cogliere per quest’opera prima). Lo stesso Avati ne rivendicò l’intenzione in una puntata di Trent’anni della nostra storia nel maggio 1991 (“All’inizio facevamo i film per provocare e svuotare le sale”).

In che cosa questo film era sicuramente divisivo (almeno nelle intenzioni)? Non nell’ecletticità dei generi (horror, favola, grottesco), come si è portati a dire oggi pur se grazie a studi seri ed attenti  (vedi Curti); quanto per il suo aperto “decadentismo”, per i chiarissimi e ostentati richiami “decadenti” visibili sia nella trama, sia nella speciale ambientazione (Rocchetta Mattei). Perché il tema della “magia” è un tema apertamente “decadente” che richiama certo “spiritismo” tipico di molta letteratura di fine secolo (pensiamo a Malombra di Fogazzaro…); perché tipicamente “decadente” è il profilo del Mago Balsamus che, in assoluta analogia con l’Ing. Mattei (veramente esistito) si ritira dal “mondo”, dalla “Storia” (perchè sceglie di vivere in un ambiente dove il tempo si è fermato) e per la “Scienza” (perchè sceglie la magia), ovvero rifiutando tutti baluardi del “pensiero positivo” ottocentesco, per darsi alla “magia terapeutica”: un novello Cireneo ateo che, ragionando del comune male del mondo, si impegnò, fuori da ogni illusione politica, scientifica e sociale, nel “guarire”, ovvero nel “dare sollievo” a chi soffriva, sia nel corpo, sia nello spirito. 

Temi del genere oggi sembrano innocui. In fondo, oggi al cinema, in TV il tema della magia è ampiamente sdoganato da film fantasy di qualunque risma (vedi Harry Potter, con cui comunque Balsamus non ha nulla da spartire!). Le cose, invece, non stavano così nel 1968, quando Balsamus fu girato. Ciò perchè la "magia" richiamava al tempo (1968) un universo simbolico apertamente rifiutato dall'establishment critico-politico-accademico dominante all'epoca. Un simile establishment critico, portato a celebrare con sommo ottimismo razionalista “le magnifiche sorti e progressive” del mondo non poteva che considerare con ostilità la magia e gli accenti “decadenti” che essa richiamava; e quindi non avrebbe mai potuto stimare un film e un personaggio come il Balsamus avatiano. E quando parlo di critica mi riferisco, tra gli altri, ad un critico militante dell'epoca molto autorevole come il lucacciano Guido Aristarco, assolutamente ostile alla rievocazione di incubi fantastici e poetici borghesi di fine ‘800 e inizio ‘900 accusati di aver partorito l’irrazionalismo da cui erano poi partite le grandi guerre e i totalitarismi (vedi la “Distruzione della Ragione” secondo Gyorgy Lukàcs). In questo contesto, quindi, Avati, con Balsamus, riproponendo questi temi nel 1968, in fondo faceva la figura di chi bestemmiava in Chiesa; voleva certamente provocare (anche se poi questa provocazione è stata diluita dalla scarsa circolazione prima e dell'oblio del film poi). 

Come detto, oggi si parla di Balsamus in rapporto ai “generi”, come "precursore" della  capacità dell'Avati maturo di “spaziare” tra i generi e mescolarli. Ora, chiariamoci: Avati è stato sicuramente un regista che ha saputo attraversare con pari maestria generi gotico-fantastici (vedi La Casa dalle finestre che ridono) o sentimentali-nostalgico-minimalisti (Jazz Band, Cinema!!!, Una gita Scolastica e altri). Nel “programma avatiano della prima ora” (rivelato da Balsamus), però, il “problema dei generi” (o della loro contaminazione) non si poneva (o comunque non era in primo piano). Le “intenzioni” del primo film rivelano qualcosa di più, ovvero un’iniziale direzione del cinema di Avati molto diversa dai film successivi. Una direzione molto più culturalmente impegnata e molto meno legata ai clichè che in seguito hanno fatto di Pupi Avati un regista affermato.

Certo, gli esiti, la realizzazione artistica dei film d’esordio in nessun caso può dirsi all’altezza delle (verosimili) intenzioni. Ma (come detto) in un’opera prima sono le “intenzioni” che inevitabilmente contano. E sono “intenzioni colte”.

Sono queste “intenzioni colte” (per quanto “tradite” da una realizzazione non all’altezza) che fanno di Balsamus un film a sé, poco (o quasi per nulla) comparabile con la produzione avatiana successiva.

Intenzioni colte che devono finalmente portarci a riconoscere il notevole backround colto di un grande regista come Avati, ben aldilà del clichè gotico-nostalgico cui è stato successivamente legato, anche se la sua umiltà lo porta a schermirsi e a nascondere questa sua caratteristica. Pochi sanno, ad esempio, che Avati collaborò alla revisione di un film come Salò di Pasolini: la collaborazione non gli fu accreditata per intricate questioni legali e produttive; eppure, anche questa collaborazione rivela una notevole affinità di Avati se non con la letteratura “decadente” in senso stretto, comunque con i temi sofisticati (la letteratura sadiana, appunto) che una certa critica di stretta osservanza lucacciana della Sinistra militante (Aristarco) degli anni 50, 60 e 70 avrebbe certamente bollato come “irrazionalisti”. Senza contare che ne La Casa dalle finestre che ridono, Avati si avvale (vedere i titoli) della “consulenza speciale” di Eugene Walter. Costui, che nel citato film avatiano ricopre il celeberrimo e ambiguo ruolo del Sacerdote don Orsi, è comunque noto al pubblico come un caratterista americano già di Fellini (vedi Otto e mezzo, 1963), di Dino Risi (Il giovane normale, 1969), fino a commedie di Serie B degli anni ’70 (vedere Le Braghe del padrone, di Flavio Mogherini, del 1978). Pochi sanno, però, che Walter è stato anche uno scrittore impegnato in una delle avventure letterarie più colte e sofisticate del secondo novecento italiano, ovvero la rivista Botteghe Oscure: un altro indubbio legame del cinema avatiano con la cultura e la letteratura “alta” o comunque “di livello”.

Perché, in fondo, questa caratteristica di impegno culturale, nel cinema successivo, sembra perdersi? Io credo che il vero motivo vada ricercato in queste parole con cui Avati traccia un bilancio secco e impietoso dei suoi primi film: “Mi consideravo ormai arrivato, e allora ho cominciato a recitare la parte del regista tipo Novella 2000, approfittando della situazione biecamente. E’ stato l’anno più tremendo della mia vita”. Ancora: l’umiltà del regista, la sua grande e ammirevole modestia di grande artista, ma soprattutto uomo. E' ora però che i diritti della critica (e della storia, ormai) abbiano la meglio sulla pur apprezzabile umiltà del regista.

FOTO DELL'AUTORE (GIORGIO FRABETTI)

 

giovedì 3 agosto 2023

ANDROMEDA, MALINCONIA DELLE STELLE (A COME ANDROMEDA, COTTAFAVI-1972)



Esiste la malinconia degli uomini. Esiste la malinconia delle stelle. Anzi, la malinconia cibernetica di Andromeda (Nicoletta Rizzi), la donna cibernetica partorita dal “Calcolatore” costruito dal Dr. Fleming (Luigi Vannucchi). Andromeda viene dalla galassia (la galassia si chiama appunto … Andromeda); è nata da un misterioso messaggio stellare captato dall’Osservatorio del Dr. Fleming, ovvero da un messaggio che conteneva il progetto di un Calcolatore potentemente intelligente, talmente intelligente da fabbricare vita; e una donna, Andromeda appunto, una donna "speciale" dall’intelligenza molto potente, eppure fragilissima. Partorita dal cervello di un Computer e non dall’affetto dei genitori, Andromeda sa elaborare programmi per intercettare e distruggere missili; ma non è programmata per le emozioni. 

Non appena entra nel mondo degli umani qualcosa capita. Qualcosa cambia quando incontra il suo “Creatore” (uno dei suoi creatori), il Dr. Fleming, che vorrebbe ucciderla. Il Dr. Fleming, nella sua etica di Scienziato, non accetta la responsabilità di aver avviato un percorso pericoloso e imprevedibile per l'Umanità. Davanti a quell’idealista dal temperamento focoso e irruente, la donna non reagisce da robot, ma… da donna: si profuma, cura l’acconciatura… in una parola se ne innamora. Ma il “Calcolatore” non aveva “calcolato” questo “residuo umano” e si appresta ad eliminarla: con l’esperienza accumulata, il “Calcolatore” sarà in grado di creare un’Umanità molto più efficiente, senza quei “difetti di fabbrica” che si chiamano… sentimenti.

Andromeda: creatura cibernetica nata adulta, quasi una novella dea Atena (questa partorita dal Cervello di Zeus, quella dal cervello del “Calcolatore”) eppure troppo … umana (e in fondo bambina, indifesa); e per questo condannata a morte. Fantascienza, cibernetica e tragedia greca si toccano: la straordinaria creatività dello screenplay della fiction tv di fantascienza si sposa alla poesia. 

Questo è Andromeda, il suo segreto di fabbrica: onnipotenza assoluta e impotenza concreta; radicata nel mondo delle macchine (dell’Intelligenza Artificiale), eppure ancora “troppo umana”, invischiata nelle sabbie  mobili dei sentimenti, delle emozioni. In una parola: malinconia. Malinconia delle stelle. 

A COME ANDROMEDA (1972), FilmTV RAI Regia Vittorio Cottafavi Interpreti: Luigi Vannucchi, Paola Pitagora, Tino Carraro, Gabriella Giacobbe, Nicoletta Rizzi.


sabato 29 luglio 2023

EMIGRAZIONE INTERNA. CITAZIONE SENZA COMMENTO

A buon intenditor, poche parole! …

(…)
“I tempi sono ostili e sordi allo Spirito; per ripararsi dalla cappa incombente, il rimedio più accessibile è l’exit strategy, la via d’uscita da perseguire seduta stante, senza mobilitazioni di piazza, ne’ movimenti politici; è la migrazione interna o interiore, emigrazione mentale o sentimentale. Scelta singola o di gruppo. Migrare stando a casa o nel luogo eletto a dimora. Esilio interiore…

La migrazione interna non è una fuga dalla terra natia ma, all’opposto, il rifugio nei luoghi natii o significativi per ripararsi dalla dominazione presente. Il rifiuto della cappa sotto cui viviamo, per ripararsi ai margini della città o dello Stato; in campagna, in fattoria, nel paesino d’origine o d’elezione, nella località di mare o di montagna, restando a casa o nella seconda casa, o trasferendosi nel casale abbandonato, dove siano più lontani i clamori molesti del giorno. Stranieri nel tempo, di casa nel luogo.

La definizione di “migrazione interna” risale a Lev Trockij, che l’ha formulata in “Letteratura e Rivoluzione”, del 1924, e si riferiva a quegli scrittori antibolscevichi che non erano fuggiti all’estero dopo la rivoluzione comunista, ma erano imboscati in campagna nella semiclandestinita’ dei loro paesi, rifugiati nel grande ventre materno della loro terra per sfuggire al regime comunista e ai suoi obblighi più vistosi”.

(…)

Da “La cappa”, Marcello Veneziani, epilogo, p. 200-201

sabato 1 luglio 2023

PERCHÉ RIDERE? IPOTESI PER UNA GENEALOGIA (MINIMA) DEL “COMICO”

Perché ridiamo? Come e perchè scatta la risata? 
Il “meccanismo base” del “comico” è la pernacchia: o meglio, la vanità, il narcisismo “punito” da una solenne pernacchia “popolare”.  Questo è (per me) l’archetipo del “comico”.

Fa ridere a crepapelle l’Imperatore della celebre favola di Andersen che incede solenne e impettito nella parata solenne sotto gli occhi dei suoi sudditi, convinto di portare chissà quali pietre preziose addosso mentre invece… è nudo. Fa ridere a crepapelle soprattutto quando ad un certo punto viene deriso quando un bimbo scopre “l’arcano”. D'un colpo la teatralità della Maestà, dell'imponenza imperiale crolla sotto una massa di "pernacchie". E tutto per non aver voluto ammettere, nella sua superbia e arroganza, di essere stato circuito da truffatori che l’avevano “toccato” nel suo punto debole: la vanità.

Questo è il "comico". 
L’Uomo è animale teatrale. 
Tutti noi (nessuno escluso) calchiamo quotidianamente forse il più duro dei palcoscenici: lo sguardo degli altri (ieri in piazza, oggi sul web).
In questo inevitabile palcoscenico (ovvero il vivere in Società) nasce il “comico”.

Il “comico” fa paura, sostiene qualcuno. 
Fa paura (si dice) ai potenti che (come l’Imperatore di Andersen) temono di apparire nella loro squallida nudità (quando invece pagano fior di consulenti per apparire persone speciali). Vero, ma non sufficiente. La resistenza al “comico”, infatti, non è (solo) politica, ma anche e soprattutto… antropologica.

Pochi ci pensano, ma il “comico” ha una genealogia “tragica”. 
Già perché se è vero che tutta la nostra vita è ... "in situazione" (in società) si da anche il caso che talora la “situazione” sia sotto il nostro controllo, in altri casi no.
Quando “la situazione” è fuori controllo, sono problemi, anche seri: inutile nasconderselo, scoprirsi ridicoli può essere un’esperienza molto sgradevole e traumatizzante; scoprirsi ridicoli in ciò che credevano nostro punto di forza può distruggerci.  

Genealogia tragica del comico: in fondo,  gli antichi dovevano averla ben compresa, se è vero che le maschere comiche e tragiche usate nei loro palcoscenici erano di fatto complementari (bocca abbassata la maschera tragica, bocca alzata il comico).
Oggi si ride poco o meno rispetto al passato perché le persone hanno bassa autostima e in genere identità meno forti. Oggi si ride meno perché in genere le persone sono più sole e i legami sociali meno forti. Per questo il comico fa paura. E la cosa (se ci pensiamo) non riguarda solo i politici… Basta pensare alle conversazioni su social, specie su Facebook ad esempio mezzo più anti-ironico per antonomasia.

Bisognerebbe vivere come un tempo desiderava Luca Barbarossa in Come dentro un film (1987): ovvero poter fare come al cinema la "moviola" anticipata della nostra vita per riuscire a scoprire da soli gli aspetti incongrui di noi stessi e correggerli: correggerli noi, prima che altri (traumaticamente) ce li correggano. 
Si può fare? Certo: di fatto a questo serve la letteratura comica, insostituibile profilassi, insostituibile compagna del “buon vivere”.

PERCHE' QUESTO BLOG?

 Voglio andare subito al sodo e chiarire:

1) Perchè apro questo Blog? Semplice, perchè mi sento solo; perchè voglio allargare la cerchia dei miei amici a chi condivide le mie stesse passioni, almeno in materia di spettacolo, prosa, letteratura. Manzoni dava per scontato di essere letto da 25 lettori, a me bastano i 2/5 dei lettori di Manzoni (10);
2) Perchè non mi dedico a tematiche "impegnate"? Perché  non parlare di "cambiamenti climatici"... di tante cose. Beh, ci ho provato a fare l'impegnato sul web quando ero più giovane, qualche volta è andata bene, più spesso è andata male. E' andata male principalmente per colpa mia: come anche un decano del web Beppe Grillo disse in passato, il web è una giungla tremenda, che seleziona in modo inesorabile "chi ci sa stare" da chi (come me) si improvvisa (si è improvvisato) "alla garibaldina". Dico questo senza invidia, ma con perfetta consapevolezza del mio limite;
3) Perchè le tematiche di questo Blog (spettacolo, prosa, letteratura): Fatta la tara a tante illusioni e a tanti progetti falliti, restava un'unica certezza: sapevo scrivere (almeno decentemente). Fedele all'insegnamento di far fruttare anche i minimi "talenti" (passatemi il termine, senza presunzione), mi sono posto l’obiettivo di seguire due grandi maestri della critica letteraria, teatrale e anche di costume: 

-Ennio Flaiano: Il titolo originale del Blog (ancora visibile forse nell'indirizzo del link) era "Lo Spettatore insonne", un chiaro richiamo allo "Spettatore addormentato", un noto libro nel quale sono raccolte le recensioni teatrali che hanno reso Flaiano celebre.  Flaiano però era forse più interessante per gli aspetti apparentemente “laterali” dei  suoi testi: le sue recensioni, infatti, erano spesso l’occasione per pitture rapide e graffianti di costume, che lo stile aforistico, l'umorismo tagliente, ma asciutto di Flaiano sapeva rendere memorabili. Ma (dico subito) io non ho questo dono della sintesi e dell'aforisma di Flaiano (vero dono di grazia). Io tendo al discorso più esteso;
-Claudio Magris: Ecco l'altro mio Maestro. Maestro anch'esso irraggiungibile sia chiaro (non avrò mai la sconfinata cultura internazionale del grande critico triestino), ma che ho eletto se non altro come modello di "scrittura estesa", come modello di approfondimento tematico di temi culturali. In questo Blog, sarò "lungo" per scelta; 

4) Perchè in questo Blog opto per una scrittura "lunga"? Lo so, sul web, si predilige la scrittura tendenzialmente "corta". Devo anche dire bene del web perchè, quando ero più assiduo di oggi, mi ha effettivamente insegnato la "sintesi". Fin dalle medie, il mio problema era la prolissità; anche nel parlare. Quando ho iniziato a scrivere sul web, invece, ho avuto occasione di approfondire le tecniche di scrittura efficaci (anche in diversi corsi a pagamento, oltrechè in utili letture) e ho fatto notevoli progressi di sintesi (che pure qualche amico da tempo inizia a riconoscermi!). Poi, la sintesi mi è andata stretta; o meglio "la coazione alla sintesi" tipica del web: poche righe di Twitter o di FB possono essere leggibili, fruibili, ma non è detto siano efficaci: pensiamo ai tanti slogan coniati dei politici, spesso molto efficaci, ma quanta "spazzatura" veicolano ... Oggi ho finalmente capito che la "sintesi" non è un fine in sè: il vero fine della Scrittura è l'efficacia, correlata all'importanza (e anche complessità) dei temi che affronti e al tipo di pubblico con cui ti proponi di condividere quei contenuti. Ad esempio, se intendi fare approfondimento puoi permetterti di scrivere qualche riga in più delle righe concesse sul web (tipicamente, su Twitter, salvo errore): l'importante è essere fluidi e in grado di organizzare i contenuti. Mi impegno, quindi, a bilanciare "lunghezza" con "ricchezza" dei miei contenuti. In questo, dicevo, ho eletto Magris a mio modello;

5) Perchè il titolo? On the road ha una radice hippie (pensiamo all'omonimo romanzo di Kerouac) che richiama subito l'avventura, non le abitudini "pantofolaie" di un "leone da tastiera" (sedicente dotto) come il Sottoscritto. Inoltre, potrebbe essere fuorviante (lo riconosco) per chi approccia il Blog per la prima volta, il quale potrebbe credere di trovarsi davanti ad un "Travel Blog", ad un "Blog di viaggi" e non di critica letteraria e simili. Non ci crederete, ma nello scegliere questo titolo mi sono ispirato a Flaiano. Avevo inizialmente trovato un titolo dove il richiamo aL celebre scrittore pescarese era più scoperto (Lo Spettatore insonne). Poi ho scelto On the road (Sulla strada), comunque un titolo molto suggestivo che di Flaiano richiama comunque un tratto costante, la flanerie: anche se Flaiano non girava in auto, nè in moto come molti hippie sessantottini (vedi anche Taxi Driver), la sua opera è profondamente radicata "sulla strada". I suoi racconti, le sue corrispondenze (dove con acume documenta prima la guerra di Etiopia in Tempo d'uccidere, poi la società opulenta come Una e una notte e Melampus, per non parlare delle sue corrispondenze giornalistiche o teatrali-cinematografiche) sono quasi tutti sostanzialmente "racconti di viaggio", perchè sono una "scoperta". Questo è indubbiamente lo spirito che intendo infondere in questo (ben più modesto) Blog, sperando che vi piaccia. E aggiungo: queste note non saranno comunque saggi "chiusi", ma appunti di viaggio: sempre rivedibili, incrementabili, riscrivibili...

Buon viaggio a tutti/e.

“C’ERA UN SACCO DI GENTE, SOPRATTUTTO GIOVANI” (U. SIMONETTA, 1979): UN TEATRO AL PRESENTE, OVVERO IL “TALENT SHOW” 45 ANNI PRIMA…

“Il teatro è concesso ai popoli che non hanno paura di guardarsi allo specchio” (Ennio Flaiano)   Qualcuno ci deve spiegare!   Sì, q...